Ogni tanto per fortuna, accade. Capita che qualcuno decida di parlare in modo diverso di “maternità”, di andare oltre lo stereotipo trito e ritrito della donna incinta serena e rilassata prima, e della mamma con il neonato in braccio dal volto disteso e la piega fresca di parrucchiere.
Chi ha affrontato questa tappa di vita così importante non può evitare di sorridere di fronte all’ostentazione continua da parte del media e dei social network di una perfezione che non esiste. Come titola il Time: “L’idea di una maternità perfetta fa male alle madri”.
Fa male per tanti motivi. Fa male perché nessuna arriva veramente preparata alla propria vita che si stravolge, al parto, e tantomeno al ritorno a casa dall’ospedale.
I corsi preparto dovrebbero preparare la donna su più fronti e affrontano i temi più svariati: dalle motivazioni per cui si è scelto il nome del piccolo, all’allattamento. Si sorride insieme sulle notti insonni che verranno, si parla di prodromi, di contrazioni, del ruolo del papà e della sua eventuale presenza in sala parto. Si fa insieme il calco del pancione come ricordo, ci si confronta su quale tipo di parto si desidererebbe affrontare.
Parto naturale e rispettato, fiducia nel proprio corpo, allattamento esclusivo fino a sei mesi: è tutto “naturale”, tutto “facile”, è tutto “come lo vuoi” basta avere le idee chiare.
La realtà a cui nessuno ti prepara
Poi però ci si scontra con una realtà che spesso non è rosea come l’avevano dipinta. Il Time a questo proposito ha deciso di andare a fondo con una ricerca a tema: intervistando 913 madri ha scoperto che la metà di loro ha provato sentimenti di dispiacere, colpa, rabbia e addirittura vergogna per complicazioni impreviste durante il parto e per mancanza di sostegno. Oltre il 70% ha percepito forti pressioni nell’agire in un determinato modo. Più della metà desiderava una nascita naturale ma il 43% ha affrontato la necessità di farmaci o epidurale.
Per non parlare dell’allattamento al seno, prima grande sfida dopo il parto: se il 20% aveva pianificato di allattare per almeno un anno, la missione è stata portata a termine da meno della metà.
E ancora, la maggior parte delle madri ha indicato la società “in generale” come fonte continua di stress seguita da medici e non a caso dalle altre madri: “‘Se non fai X o Y, significa che stai facendo male” afferma Catherine Monk, psicologa e professore associato presso la Columbia University Medical Center, la cui ricerca si concentra sullo stress materno.
Il risultato è una pressione continua sulle madri, amplificata oltre misura da Internet e dai Social Media che fanno da cassa di risonanza.
Il giudizio facile e i sensi di colpa
In una società in cui puntare il dito sulle scelte altrui esprimendo spesso facili giudizi è la prassi, le neomamme non hanno spesso molta scelta, finendo per chiudersi in se stesse e cercare di risolvere i propri dubbi senza l’aiuto di nessuno.
L’atteggiamento per cui si etichettano alcune condotte come “giuste” e altre come “sbagliate” è la principale motivazione per cui molte ricordano il loro parto come un vero e proprio fallimento.
Una donna a cui è stata fatta un’induzione, prosegue la ricerca, l’ha definito “non riuscito”, un’altra non intenzionata a utilizzare farmaci ma avendo all’ultimo fatto richiesta dell’epidurale si è mostrata dispiaciuta per non aver potuto “fidarsi del proprio corpo”. Sentimenti molto simili uniti al senso di colpa sono quelli nei confronti dei problemi con l’allattamento, altra dolorosa pagina.
Delusione e frustrazione. Senso di colpa per sentirsi “egoiste” nell’aver desistito di fronte a mastiti, ingorghi, notti insonni, pressioni per rientrare rientrare al lavoro.
Tutte le mamme intervistate affermavano che il loro più grande desiderio fosse un bambino sano, la maggior parte per fortuna è quello che ha ottenuto. Peccato che tutto questo rumore di fondo dei giudizi non richiesti, del continuo dover “dimostrare” a se stesse e al mondo di essere una buona madre, le abbia allontanate dall’unico obiettivo che valeva forse la pena di perseguire: godere appieno di un momento di vita unico e irripetibile.
La solidarietà tra donne non esiste
Tornare a casa con questo tipo di sentimenti, con una delusione tanto immotivata quanto cocente nei confronti di se stesse, e peggio ancora, con l’impossibilità di poter condividere i propri stati d’animo.
Anche l’incomunicabilità tra mamme è qualcosa con cui prima o poi fanno i conti in molte. In un’occasione in un gruppo Facebook dedicato alla maternità l’ho provato in prima persona: mi capitò di rispondere a chi chiedeva consiglio sull’ospedale in cui partorire.
Risposi scrivendo la “mia” verità, ovvero che nella struttura di cui si parlava ho avuto un’esperienza pessima, da dimenticare. E che non la consiglierei nemmeno alla mia peggior nemica. Non passarono nemmeno due minuti che la prima risposta che ricevetti fu di questo tenore: “Definire in questo modo un’esperienza che ha a che vedere con un figlio fa riflettere”. Iniziai a riflettere davvero, ma su altro. Se c’è di mezzo tuo figlio, dire che sei stata male, che il parto non è tra i tuoi ricordi più belli, non è contemplato né ammesso. Bisogna fingere, fingere anche negli spazi dedicati alle neomamme dove uno sfogo su un’esperienza così intima dovrebbe, almeno si spera, trovare un minimo di comprensione.
Oltre a rimanere allibita, fu la prima volta in cui capii tante cose, tutte insieme. La solidarietà fra donne e spesso anche fra madri, è più una leggenda metropolitana, qualcosa che forse ci piace credere che esista. Questa forse è stata la più amara: un’esperienza così importante che dovrebbe unire, facilitare il senso di solidarietà l’una verso l’altra, scatena troppe volte l’ennesima inutile competizione. La gara è sempre aperta a chi si vuole conquistare il posto di prima della classe. Chi allatta più a lungo, chi ha partorito senza epidurale, chi usa il passeggino e chi la fascia. Chi fa dormire i bimbi nel lettone e chi no. Gli argomenti su cui salire in cattedra sono i più svariati.
La società si aspetta dalle madri non solo una perfezione che non è di questo mondo probabilmente, ma chiede tutto e il suo contrario: chi torna al lavoro dopo pochi mesi è una carrierista poco incline al sacrificio, chi rimane a casa per crescere i bambini perde la sua identità e la sua autonomia. Tutto il contrario di tutto.
Il peggio è che ci caschiamo sempre. Ci caschiamo quando i media ci propinano canoni di bellezza irraggiungibili da ragazzine, ci caschiamo quando ci fanno sentire in colpa se decidiamo di non aderire agli stereotipi di “femminilità” che ci vengono propinati, ci caschiamo quando permettiamo a chiunque di metterci in discussione come madri. Riescono sempre in qualche modo a farci sentire in difetto, e ciò che è peggio è che nella maggior parte dei casi ci riescono molto bene.
Forse sarebbe meglio di tanto in tanto, almeno tra di noi, provare ad andare oltre, provare a sospendere in prima persona i facili giudizi e ricordarci che poche esperienze ci rendono vulnerabili come la maternità.
Periodi più sereni si alternano a momenti più complessi, questo vale per tutte: sarebbe bello poterne parlare apertamente concedendosi il lusso della sincerità e ricevere risposte che non sanno di “giudizio”.
Ancor più bello sarebbe sentirsi rispondere la verità: “È capitato anche a me, andrà meglio”. Niente è più prezioso di una condivisone aperta e sincera: sicuramente non risolve i problemi, ma certamente fa sentire meno sole.