Per una nascita senza violenza. La mia recensione.

L'autore è un ginecologo e ostetrico francese. A lui si deve il "metodo Leboyer" che raccoglie una serie di condizioni per un parto dolce che permette al neonato una nascita senza traumi inutili.

Ci sono libri che ti chiamano e che leggi nei periodi della tua vita che più gli si addicono.
O comunque, in qualche modo, lasci che ti si modellino addosso e riesci a cogliere la linfa di ogni loro pagina.

Come già anticipato sulla pagina FB di Periodo Fertile qualche giorno fa, oggi vorrei presentarvi ‘Per una nascita senza violenza” di Frédérick Leboyer.

L’autore è un ginecologo e ostetrico francese. A lui si deve il “metodo Leboyer” che raccoglie una serie di condizioni per un parto dolce che permette al neonato una nascita senza traumi inutili.

Dopo aver finito di leggere il libro, con mio grande stupore scopro che il testo è stato pubblicato per la prima volta nel 1975.
Scritto così tanti anni fa eppure così attuale e moderno nei concetti e nella messa in pratica di molte sue “operazioni”. Un’analisi completa, competente e minuziosa degli aspetti della nascita e della vita intra ed extrauterina dei bambini.

Leboyer dosa le parole con attenzione, amore e rispetto per il suo lavoro.

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Questo libro era sul mio comodino da tantissimo tempo ma non ho mai trovato una spinta motivazionale sufficiente per aprirne le pagine e lasciarmi catapultare in vissuti e situazioni che probabilmente non volevo vedere o semplicemente volevo ignorare.

Un libro che non ha una trama, non ha episodi ed è privo di bilance sulle quali dosare cosa sia giusto pensare e cosa no.

Racconta una verità. Quella verità che il bambino che sta per uscire dal corpo materno non può raccontarci a parole.

Affronta e approfondisce un argomento ampio e sconfinato, in cui rimane centrale parola dopo parola, un unico, importantissimo e a tratti sottovalutato punto di vista…quello del bambino.

“Lei pensa che nascere sia piacevole?”
Questa la prima riga del libro, che si srotolerà in un dialogo che subito diventa riflessione per chi è alla lettura.
Si parte subito “in quinta” con domande incalzanti sulla felicità e sull’infelicità.

È davvero difficile recensire questo libro senza riportarvi intere pagine dense di esperienza.

L’autore mi ha messo davanti a tantissime informazioni, che non sono dati, numeri o statistiche.
Sono immagini.

Una sala parto, la luce accecante che inquadra la venuta al mondo del bambino, il suo pianto, il chiacchiericcio, le urla, la confusione, i movimenti veloci e scattanti, gli automatismi di alcune operazioni.

Fermiamoci. Riflettiamo.
È davvero così che deve andare?

È un’idea diffusa, un postulato ben radicato: un neonato è un “cosino” che non prova niente, che non sente niente, che non vede niente…
Come potrebbe questo “cosino”, provare dolore?
Il “cosino” grida, urla, tutto qui.
Insomma: è un oggetto.
E se non fosse vero?
Se per caso fosse già una persona?

Leboyer ribalta i luoghi comuni, quelli degli anni ’60 che poi sono molto simili a quelli dei giorni nostri (e vi assicuro che non è cambiato molto!).

Durante la lettura rimane ben chiaro e sempre presente un concetto che nella frenesia e nella novità di gravidanza e parto si tende generalmente a far scivolare in secondo o terzo piano. Sto parlando della parola che possiamo dare al bambino, della sua personale interpretazione dell’ambiente-pancia, del calore dell’utero, della freddezza di una bilancia, del suo cordone ombelicale e dei suoi polmoni che respirano per la prima volta l’aria, dei suoi occhi che per la prima volta si aprono al mondo, della sua bocca, delle sue braccia, delle sue orecchie non abituate al frastuono.

Mai perdere di vista questo, mai dimenticarsi del calvario del bambino per passare attraverso il canale del parto e fare amicizia con le contrazioni, della sua fatica immensa a gestire le sue emozioni e l’ambiente che lo avvolge in una morsa, quasi a volerlo soffocare e torturare.

Nella nascita c’è un paradosso singolare: il bambino esce da una prigione insopportabile, eccolo libero e tuttavia…urla!
Pare che avvenga lo stesso ai prigionieri liberati.
La libertà che così a lungo hanno sognato, li inebria, li getta nel panico.

E poi ancora il senso della vista. In una bellissima analogia l’autore chiede di fare come gli amanti, che si collocano nel buio, si esplorano e conoscono dapprima attraverso il tatto per aumentare l’attenzione e la sensibilità delle nostre mani.

Meglio dunque che la madre scopra suo figlio dapprima palpandolo.
Che lo senta prima di vederlo.
Che percepisca quella vita calda, palpitante. Che si commuova mediante le sue mani, nella sua stessa carne. E non nel suo giudizio.

Nella terza e ultima parte del libro, arrivano le risposte a molte delle domande che più o meno esplicitamente emergono nelle parti prima e seconda.

La paura, il vedere, l’ascoltare.
L’ignoto, l’ego, il buon senso.

 

Insomma, un libro così denso e pieno che va accolto riga dopo riga.
Spessissimo nel corso della lettura ho sottolineato frasi, ho scritto a margine e mi sono appuntata su un quaderno tutti gli aspetti sui quali volermi fermare a pensare in maniera più approfondita.

Non mi sono mai sentita giudicata nel mio ruolo di “donna partoriente”, anzi mi sono sentita ancora più forte e motivata.

Accogliere una nuova vita è un “compito” che spesso ci sfugge di mano. Riappropriarsi di un rapporto ancestrale e magico può e deve rientrare nei nostri interessi e nelle nostre convinzioni.

Aver avuto la possibilità di approfondire il punto di vista del bambino mi ha messo in una condizione di conoscenza che non posso più ignorare.

Francesca Calori